Di ENZO BIANCHI
Ogni anno ritornano «i morti», giorno in cui si ricordano «quelli che se ne sono andati e non sono più qui». Fin dalla preistoria, da quando l’uomo è uomo, la morte è un enigma, un’ingiustizia vissuta dall’uomo come destino ma mai accolta con semplice naturalezza. Per chi muore, la morte è un evento sconosciuto: è la fine di tutto o l’apertura a un altro mondo? Per questo la paura della morte è innestata in ogni vita umana e di fatto è, come dice Giobbe, «la regina delle paure», la radice di tutte le paure. Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei ha un’affermazione poco ricordata e meno ancora esplorata, ma di importanza decisiva per lo svelamento che contiene: «a causa della paura della morte, (gli esseri umani) sono soggetti ad alienazione per tutta la vita» (Ebrei 2,15).
Oggi accettiamo con difficoltà ancora maggiore di guardare alla morte, perché la nostra società assomiglia al palazzo che il padre di Gothama Buddha aveva costruito per il figlio: un luogo da cui era stato bandito ogni segno di malattia, di vecchiaia e di morte. Nonostante i media siano pieni di morte - morti spettacolari, vittime di guerra, di calamità naturali, di delitti e di incidenti stradali - oggi la morte è sistematicamente ritenuta oscena e rimossa. Ma questa è la morte degli altri, la morte che «fa notizia», tanto più spettacolare quanto meno è la mia morte. Così, il risultato di questo eccesso di rappresentazione provoca l’espulsione della morte dal nostro quotidiano e la rende lontana, improbabile per noi.
Sì, però i nostri morti? Prima o poi, infatti, muore anche qualcuno vicino a noi. E, a meno che non si tratti di un evento improvviso, anche per loro è in atto un processo che ce li rende sempre più estranei: il periodo finale della loro vita è tenuto lontano dal nostro quotidiano, in ospedale, in luoghi dedicati a malati «terminali», appunto. Altri sono deputati ad accompagnare chi muore e, quando la morte sopraggiunge, tutto è approntato affinché il morto non torni neppure a casa ma, pur con tutti gli onori del funerale, raggiunga presto il cimitero dove, anche lì, c’è sempre meno spazio e tempo per i morti. Dopodiché ci si affretta a insegnare vie per «elaborare il lutto», perché si pensa che il dolore per la perdita di chi abbiamo amato e amiamo debba essere addolcito e fatto sparire il più in fretta possibile: occorre dimenticare, e l’oblio va accelerato...
Questo tentativo di occultare la morte e dimenticare i morti lo ritroviamo presente anche nella macabra carnevalata celebrata come Halloween - festa estranea alla tradizione culturale italiana, ma impostasi per i suoi risvolti smaccatamente commerciali, all’insegna del principio che «tutto si può vendere e con tutto ci si può divertire» - in cui i bambini sono indotti a divertirsi parodiando la morte: è un tentativo disperato e antropologicamente falso di esorcizzare la morte. Distogliere lo sguardo da questo evento ineluttabile è impossibile, perché la morte è solo la forma più decisiva e definitiva della sofferenza che accompagna tutta la vita, e il dolore non può essere eliminato. Sicché la morte che si vorrebbe ignorare diventa oppressione, incubo, fantasma e noi restiamo inconsapevoli di cosa ci attende, alienati dalla paura della morte.
Perché si è giunti oggi a questa parodia di un giorno che era umanissimo, un giorno di memoria che gli esseri umani - e solo loro - di tutte le culture hanno creato e vissuto con riti diversi, ma sempre tesi a ricordare quanti li hanno preceduti nel cammino della vita e della morte, e a esercitarsi a vivere per loro segni di attenzione? Sembra impossibile questa spaventosa perdita di memoria. Ancora la mia generazione ha conosciuto questo bisogno della visita alle tombe delle persone amate: rito a volte addirittura settimanale, ma sentito come dovere assoluto in questa stagione autunnale, quando tutta la natura ci parla di una fine, una morte, un sonno e un riposo. Non c’entrava essere credenti o meno: c’era nel cuore una relazione d’amore vissuta, e questa abbisognava di essere ricordata e in qualche misura rivissuta.
D’altronde, tra tutti gli animali, solo l’essere umano ha sentito da sempre il bisogno di dare sepoltura a chi moriva e di porre un segno visibile e tangibile dove il corpo aveva raggiunto la terra e si era unito a essa per sempre. Ecco allora la necessità umanissima di recarsi alla tomba, specie in occasione di ricorrenze personali - come l’anniversario della morte o della nascita - o di commemorazioni collettive, come il «giorno dei morti» o quello dei «caduti». Ripulire la tomba, lavare la pietra che reca impresso il ricordo, ornarla di fiori, illuminarla di un lume sono tutti gesti tesi a celebrare il morto e a ravvivare la comunione vitale con lui. Culto di morte? Piuttosto, in un certo senso, culto dei morti: in questi gesti non c’è venerazione per dei cadaveri né tanto meno evocazione di spiriti, bensì il desiderio di accendere un rapporto impossibile nel presente, ma che nel passato è stato autentico, significativo, vitale. Bisogno di raccoglimento, di un momento di sobria tristezza e di contenuta nostalgia per storie umane, difficili e faticose, ma nelle quali si è trovato un senso che non può essere scomparso con la morte.
Ma ora che la Chiesa «permette» la cremazione, cioè di ridurre subito il corpo in poca cenere, sorgono nuovi problemi: dove deporre le urne se non sono previsti appositi luoghi che le raccolgano consentendo che svolgano la loro funzione di memoriale, di «sito» di un corpo morto ma del quale sentiamo il bisogno di una localizzazione? Saranno custoditi in casa in un’ottica feticistica che vuole eliminare la distanza posta dalla morte? Saranno disperse nei fiumi o in mare o al vento, in una ideologia new age che dissolve la persona, la storia e il rapporto personale di comunione con Dio? E per i cristiani la sacramentalità della morte di Gesù, sepolto nella terra, come potrà essere mantenuta e restare esemplare? Nella celebrazione della «festa di Ognissanti» i cristiani affermano infatti di «leggere» i morti nella speranza di una grande comunione in cui la morte è stata vinta, vinta dall’amore umano vissuto fino all’estremo da Gesù di Nazaret. Eros e Thanatos, Amore e Morte: ecco il duello vero e definitivo, un duello che per i cristiani è già avvenuto perché ormai sulla morte regna l’amore, ma un duello cui possiamo partecipare ancora oggi. Quando rinnoviamo l’amore per i nostri cari che sono morti, noi vinciamo la morte perché rinnoviamo una relazione vitale, mentre essere immemori dei morti e sgomenti di fronte alla propria morte significa non essere realmente e autenticamente persone vive. L’amore ci fa sentire nemica la morte, ma l’amore per chi è morto ci può parlare della vita.