sabato 26 novembre 2011

VICINI DI CASA PARTE 3^


I NOSTRI VICINI DI CASA
3^ parte


    Dobbiamo fare subito un chiarimento perchè non tutti gli uomini con il turbante e le donne che indossano vestiti di seta, molto colorati, che camminano per le vie di Lavinio, sono Indiani. Molti, la maggioranza, sono Pakistani di religione Sikh. Di loro abbiamo scritto negli articoli precedenti.

    Ora, vogliamo "osservare", cioè cerchiamo di conoscere meglio,  quelli che sono veramente indiani perchè provengono dall'India e che, quasi tutti, sono Induisti. Una minoranza, provenienti dal Kerela  sono Cattolici.  Invece quelli che vengono da Nuova Delhi e dintorni, sono Musulmani e quelli del Punjab, come i Pakistani, sono Sikh. 

    Non possiamo ignorare che l'80% della popolazione indiana condivide un insieme di elementi culturali e religiosi che vengono definiti come "induismo". Non si può dire che sia una religione, secondo il concetto classico del termine, perchè si tratta di un composto di fattori religiosi e sociali, senza che ci sia un fondatore. Manca anche una gerarchia e quindi mancano anche delle norme. Questo ha provocato una grande varietà di credenze e di denominazioni.

    Credo ci possa aiutare molto, per conoscere meglio questi nostri vicini, leggere quanto nella Dichiarazione "Nostra Aetate" del Concilio Vaticano II, viene detto di loro: "Nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia: essi cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza". 

    Alla base della spiritualità e della cultura religiosa, c'è il patrimonio letterario conosciuto come "Veda". Consiste in una serie di "raccolte" (samitha) di inni di poeti e veggenti indiani. Sono quattro le raccolte vediche alle quali si sono ricondotte altre opere, non solo di carattere filosofico, ma anche mistico.

    Non possiamo in un articolo, meramente informativo, entrare a parlare di tutte le "scuole" o "visioni della realtà" (darsana) di cui una, antichissima è lo yoga (esso si trova come azione "terapeutica" anche nel buddismo). Ci limiteremo a indicare la "dinamica delle rinascite" che è strettamente legata alla "legge del karman" che assegna all'essere umano, a seconda dei suoi meriti e demeriti, la possibilità di trasmigrare di vita in vita.

    Il compiere opere buone (punya) interessa tutti loro. Interessa anche a noi. Pensare che con credenze diverse, totalmente diverse delle nostre, i nostri vicini di casa si impegnano a fare del bene, a compiere opere buone, per raggiungere  una completa purificazione, ci aiuta ad essere non solo vicini, ma anche amici.

    A volte per evitare azioni negative (vikarman), il fedele indù, è portato a non agire. Cerca di raggiungere il bene con ascesi e tecniche varie. Forse sono lezioni per noi?

    Per approfondire la conoscenza: www.hinduism.it

sabato 5 novembre 2011

GEMME MODERNE



Gemme moderne: Cento donne per l’Africa tra Aprilia e Lavinio
I campi coltivati, le case pulite, gli anziani accuditi: così, mettendo ordine negli affanni della nostra quotidianità ,“lo straniero” è diventato parte integrante della nostra vita.
Europa dell’est, India, Africa: ciascun “extra” che incontriamo giornalmente  può raccontarci una storia diversa eppure uguale per la disperazione di dover lasciare le proprie terre, dove la vita è fatta di stenti povertà miseria; terre cui rimangono vincolati da un legame affettivo indissolubile e in cui spesso sperano di tornare.
Il convegno che il 29 ottobre scorso si è tenuto presso il Centro Ecumenico di Lavinio e che ha avuto per titolo “La mia casa è il mondo: cooperazione, migrazione, diritti umani” ha offerto l’occasione per riflettere soprattutto su un continente, l’Africa, quella che ci siamo abituati a chiamare “povera”; quella popolata da chi ciclicamente  approda sulle nostre coste, travolgendo le esistenze di quanti hanno il coraggio di aprirgli non solo per “farsi aiutare” a basso costo.
 Al centro del convegno, in particolare, c’è stato il ruolo della donna in Africa: è lei, amante disperata della vita, con la zappa sempre al fianco anche di notte per non farsi rubare il mezzo di sopravvivenza, a garantire l’esistenza di un intero popolo.
Si è dato spazio così a chi è impegnato, qui in Italia, nel difendere la dignità della vita e delle donne africane.
Questo evento fornisce ora l’occasione per parlare di un movimento tutto al femminile che da alcuni anni opera tra Aprilia e Lavinio, Cento donne per l’Africa, impegnato nel sostenere con iniziative di solidarietà le missioni portate avanti in Congo ed in Costa d’Avorio dalla Congregazione Missionaria delle sorelle di Santa Gemma  residente a Lucca.
Il “cento” è stato preso come orizzonte simbolico e non come punto di partenza: poche le donne che hanno dato vita al gruppo, grande la loro speranza che il numero si accrescesse.
Le “donne per l’Africa” per sottolineare l’unicità della donna nel sapersi prendere cura di qualcuno e nel sapersi impegnare anima e corpo in qualcosa in cui crede.
Tutto nasce dal passaggio delle suore missionarie citate in una delle comunità parrocchiali di Aprilia: quanti hanno saputo condividere con loro la cura del prossimo sul nostro territorio ricco di molteplici povertà non hanno tardato a diventare sostenitori appassionati delle loro missioni in Africa, terra di Povertà per antonomasia.
Così attraverso aiuti a distanza il gruppo contribuisce alle necessità materiali cui quotidianamente le suore si trovano a dover far fronte per curare, nutrire e garantire un’istruzione a coloro che chiedono aiuto, in particolare donne e bambini.
Gli incontri del movimento, tenuti a mesi alterni tra Aprilia e Lavinio, non sono solo momenti diretti alla raccolta fondi ma rappresentano per chi partecipa occasioni di scambio di opinioni, idee e di ascolto di esperienza di vita vissuta nel continente africano.
Inoltre da circa un anno il gruppo si è messo in “rete” con altri gruppi sparsi in tutti Italia e formati da persone che, dopo aver conosciuto le sorelle di Santa Gemma, hanno deciso di sostenere la loro opera missionaria in terra d’Africa: nasce così il sito www.gemmedafrica.com che raccoglie le iniziative, i racconti e gli appuntamenti di tutti coloro che pur sapendo che l’Africa è lontana, non rimangono indifferenti alle sue sorti ed hanno deciso di farsene carico.
Per maggiori informazioni è possibile inviare una e-mail a info@gemmedafrica.com oppure visitare il sito www.gemmedafrica.com. Invece la Sede della Congregazione delle Sorelle di Santa Gemma: è in Via della Chiesa 1, 55010 Camigliano S. Gemma (Lu)

mercoledì 2 novembre 2011

Dall’umanissima paura all’inumana rimozione




Di ENZO BIANCHI
Ogni anno ritornano «i morti», giorno in cui si ricordano «quelli che se ne sono andati e non sono più qui». Fin dalla preistoria, da quando l’uomo è uomo, la morte è un enigma, un’ingiustizia vissuta dall’uomo come destino ma mai accolta con semplice naturalezza. Per chi muore, la morte è un evento sconosciuto: è la fine di tutto o l’apertura a un altro mondo? Per questo la paura della morte è innestata in ogni vita umana e di fatto è, come dice Giobbe, «la regina delle paure», la radice di tutte le paure. Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei ha un’affermazione poco ricordata e meno ancora esplorata, ma di importanza decisiva per lo svelamento che contiene: «a causa della paura della morte, (gli esseri umani) sono soggetti ad alienazione per tutta la vita» (Ebrei 2,15).

Oggi accettiamo con difficoltà ancora maggiore di guardare alla morte, perché la nostra società assomiglia al palazzo che il padre di Gothama Buddha aveva costruito per il figlio: un luogo da cui era stato bandito ogni segno di malattia, di vecchiaia e di morte. Nonostante i media siano pieni di morte - morti spettacolari, vittime di guerra, di calamità naturali, di delitti e di incidenti stradali - oggi la morte è sistematicamente ritenuta oscena e rimossa. Ma questa è la morte degli altri, la morte che «fa notizia», tanto più spettacolare quanto meno è la mia morte. Così, il risultato di questo eccesso di rappresentazione provoca l’espulsione della morte dal nostro quotidiano e la rende lontana, improbabile per noi.

Sì, però i nostri morti? Prima o poi, infatti, muore anche qualcuno vicino a noi. E, a meno che non si tratti di un evento improvviso, anche per loro è in atto un processo che ce li rende sempre più estranei: il periodo finale della loro vita è tenuto lontano dal nostro quotidiano, in ospedale, in luoghi dedicati a malati «terminali», appunto. Altri sono deputati ad accompagnare chi muore e, quando la morte sopraggiunge, tutto è approntato affinché il morto non torni neppure a casa ma, pur con tutti gli onori del funerale, raggiunga presto il cimitero dove, anche lì, c’è sempre meno spazio e tempo per i morti. Dopodiché ci si affretta a insegnare vie per «elaborare il lutto», perché si pensa che il dolore per la perdita di chi abbiamo amato e amiamo debba essere addolcito e fatto sparire il più in fretta possibile: occorre dimenticare, e l’oblio va accelerato...

Questo tentativo di occultare la morte e dimenticare i morti lo ritroviamo presente anche nella macabra carnevalata celebrata come Halloween - festa estranea alla tradizione culturale italiana, ma impostasi per i suoi risvolti smaccatamente commerciali, all’insegna del principio che «tutto si può vendere e con tutto ci si può divertire» - in cui i bambini sono indotti a divertirsi parodiando la morte: è un tentativo disperato e antropologicamente falso di esorcizzare la morte. Distogliere lo sguardo da questo evento ineluttabile è impossibile, perché la morte è solo la forma più decisiva e definitiva della sofferenza che accompagna tutta la vita, e il dolore non può essere eliminato. Sicché la morte che si vorrebbe ignorare diventa oppressione, incubo, fantasma e noi restiamo inconsapevoli di cosa ci attende, alienati dalla paura della morte.

Perché si è giunti oggi a questa parodia di un giorno che era umanissimo, un giorno di memoria che gli esseri umani - e solo loro - di tutte le culture hanno creato e vissuto con riti diversi, ma sempre tesi a ricordare quanti li hanno preceduti nel cammino della vita e della morte, e a esercitarsi a vivere per loro segni di attenzione? Sembra impossibile questa spaventosa perdita di memoria. Ancora la mia generazione ha conosciuto questo bisogno della visita alle tombe delle persone amate: rito a volte addirittura settimanale, ma sentito come dovere assoluto in questa stagione autunnale, quando tutta la natura ci parla di una fine, una morte, un sonno e un riposo. Non c’entrava essere credenti o meno: c’era nel cuore una relazione d’amore vissuta, e questa abbisognava di essere ricordata e in qualche misura rivissuta.

D’altronde, tra tutti gli animali, solo l’essere umano ha sentito da sempre il bisogno di dare sepoltura a chi moriva e di porre un segno visibile e tangibile dove il corpo aveva raggiunto la terra e si era unito a essa per sempre. Ecco allora la necessità umanissima di recarsi alla tomba, specie in occasione di ricorrenze personali - come l’anniversario della morte o della nascita - o di commemorazioni collettive, come il «giorno dei morti» o quello dei «caduti». Ripulire la tomba, lavare la pietra che reca impresso il ricordo, ornarla di fiori, illuminarla di un lume sono tutti gesti tesi a celebrare il morto e a ravvivare la comunione vitale con lui. Culto di morte? Piuttosto, in un certo senso, culto dei morti: in questi gesti non c’è venerazione per dei cadaveri né tanto meno evocazione di spiriti, bensì il desiderio di accendere un rapporto impossibile nel presente, ma che nel passato è stato autentico, significativo, vitale. Bisogno di raccoglimento, di un momento di sobria tristezza e di contenuta nostalgia per storie umane, difficili e faticose, ma nelle quali si è trovato un senso che non può essere scomparso con la morte.

Ma ora che la Chiesa «permette» la cremazione, cioè di ridurre subito il corpo in poca cenere, sorgono nuovi problemi: dove deporre le urne se non sono previsti appositi luoghi che le raccolgano consentendo che svolgano la loro funzione di memoriale, di «sito» di un corpo morto ma del quale sentiamo il bisogno di una localizzazione? Saranno custoditi in casa in un’ottica feticistica che vuole eliminare la distanza posta dalla morte? Saranno disperse nei fiumi o in mare o al vento, in una ideologia new age che dissolve la persona, la storia e il rapporto personale di comunione con Dio? E per i cristiani la sacramentalità della morte di Gesù, sepolto nella terra, come potrà essere mantenuta e restare esemplare? Nella celebrazione della «festa di Ognissanti» i cristiani affermano infatti di «leggere» i morti nella speranza di una grande comunione in cui la morte è stata vinta, vinta dall’amore umano vissuto fino all’estremo da Gesù di Nazaret. Eros e Thanatos, Amore e Morte: ecco il duello vero e definitivo, un duello che per i cristiani è già avvenuto perché ormai sulla morte regna l’amore, ma un duello cui possiamo partecipare ancora oggi. Quando rinnoviamo l’amore per i nostri cari che sono morti, noi vinciamo la morte perché rinnoviamo una relazione vitale, mentre essere immemori dei morti e sgomenti di fronte alla propria morte significa non essere realmente e autenticamente persone vive. L’amore ci fa sentire nemica la morte, ma l’amore per chi è morto ci può parlare della vita.